Ladies and gentlemen: SAM PECKINPAH

Sono Massimiliano “DonMax” Romualdi e oggi voglio raccontarvi la storia di un uomo che per decenni è stato considerato il regista della violenza ma se fosse stato solo questo non ci sarebbe molto da dire. Signore e signori, lasciatemi introddure Sam Peckinpah.

L’elemento “violenza” è presente in modo prepotente in buona parte dei suoi film ma, per fare un nome, L’ultimo Buscadero non trasuda violenza e nemmeno La Ballata di Cable Hogue. Peckinpah: il suo nome è legato al mito del western e non solo. Senza dubbio l’aver realizzato ben cinque western iniziali lo ha legato a questo genere per sempre, ma egli ha partorito opere di argomento bellico, di angolazione spionistica, action anni ’80, thriller cupi ed inquietanti (Cane di Paglia resta uno dei film che mi hanno fatto più male, disturbante e spiazzante).  Si è detto spesso dell’influenza del nostrano Sergio Leone sulla sua visione del Cinema dimenticando che i ritmi dell’uno e dell’altro sono diversi. In proposito si sono definite barocche le sue pellicole, barocche per l’uso del ralenti: ma in Peckinpah vi è veramente poco di barocco.  In Peckinpah i tempi sono secchi. Un esempio di barocchismo è invece il tempo dilatato nel western firmato Leone Sergio “C’era una volta il west”.Oltretutto in Leone possiamo distinguere chi si schiera dalla parte della giustizia e chi no. In Peckinpah i personaggi ondeggiano, vivono la vita in un limbo, il loro motto è “The right choice for the wrong reason“. I suoi eroi non sono gli eroi del western classico, i suoi eroi incarnano un pezzo di storia americana: sono i cowboys, le spie, i camionisti, gli intellettuali, i fan del rodeo, i soldati, i gangster da quattro soldi. Personaggi che hanno perso la bussola, non sanno chi sono, dove sono, dove vanno. Sono segnati dal loro passato e dalle scelte da fare nel presente. Sono contraddittori e moralmente ambigui, incerti e discutibili. Non hanno strutture di riferimento, non hanno valori a cui aggrapparsi, ecco perché i film di Peckinpah ancora oggi sono attualissimi.

Sam Peckinpah al suo meglio
Sam Peckinpah al suo meglio

Oltre la violenza, anzi al di là della violenza, i film del nostro sono incentrati sull’abuso del potere. Abuso contrapposto all’unico modo possibile per difendersi da esso, ed il comportamento di Anatra d’acciaio dello spensierato road movie CONVOY ne è un esempio, ovvero l’individualismo. Non ci si rassegna dinnanzi all’abuso del potere, l’eroe dei suoi film si pone sopra la massa e rincara la dose: “Quando si sceglie di stare con qualcuno si va fino in fondo, altrimenti si è come un animale“. Anarchismo Individualista tinto di venature nichiliste e si atterra al suo ultimo film The Osterman Weekend: infatti il protagonista è in questi termini che si definisce. Eroi che vivono nella quotidianità di piccole località, ambienti spesso provinciali e marginali, o che vivono in grandi città caotiche. Quindi il regista pone l’occhio della macchina da presa sul particolarismo locale, la parata, i festeggiamenti, il pubblico meravigliato da una gara, i pedoni che attraversano una strada.

Ma in soldoni, chi era Sam Peckinpah ?

  • CAPITOLO 1: L’UOMO

Sam Peckinpah era uomo, un uomo con una visione particolare del mondo e sopra le righe. I suoi furono e sono (perché ad oggi li abbiamo) film sui perdenti. Gli antieroi di Sam sono sconfitti in anticipo. L’elemento tragico è onnipresente. Sono degli emarginati, dei solitari che non hanno nessun profitto nell’accollarsi un’avventura impossibile. Sam era romantico ed aveva questa passione per i perdenti pronti all’autodistruzione. Il motivo per questa passione è semplice: questi personaggi ricalcano in un modo o nell’altro la sua persona. Per di più Sam durante la giovinezza fu marine in Cina e da questa esperienza ne fece tesoro. I protagonisti delle pellicole ricalcano quei giovani conosciuti nell’ambiente militare, dei ragazzi che purtroppo o per fortuna vivevano la propria vita a contatto con un ambiente duro.

MA prima ancora di essere marine, Sam Peckinpah, classe 1925, era il figlio del melting pot tipico degli Stati Uniti. Un “meticcio” nel cui sangue vi erano tracce d’Irlanda, Olanda, Galles e vi era del sangue indiano. Ben due tribù native americane di cui una composta da valorosi guerrieri: i Paiute. Due furono le stirpi della sua famiglia, da un lato i montanari allevatori e dall’altro gli uomini di legge. Il nonno materno, il padre e il fratello furono giudici. Ai piedi dell’Alta Sierra, il nonno-giudice David Church aveva un ranch di 4000 acri e le montagne portano ancora il nome Peckinpah (a 25 miglia da Fresno). Cresciuto in un ambiente WASP, in mezzo a pionieri e uomini di legge, in mezzo alla natura, nella passione della caccia, la pesca e soprattutto in una famiglia autoritaria; laureato in drammaturgia militò prima nell’ambiente televisivo e poi in quello cinematografico, dove per anni si vedrà vittima di un tira e molla da parte dei produttori. I produttori, dei vampiri che in più occasioni succhiarono il sangue a Sam e lo portarono, dal punto di vista umano, a sostenere ritmi più che pesanti e, dal punto di vista tecnico, a sopportare ingenti tagli alle sue opere. Etica, eroismo, nichilismo, scetticismo, cinismo, machismo si incontrano nei suoi film proprio per le esperienze personali, il bagaglio che Sam si porta dietro dai primi anni agli ultimi. Con gli anni poi, il nostro, venne accusato di misoginia e di maschilismo. Rivedendo la sua posizione, oggi, nel nostro periodo storico capiamo come il regista non od veramente il gentil sesso. Sicuramente nei suoi film (ad esempio ne Il Mucchio Slevaggio, dove abbiamo la figura ambigua di Teresa che se ne va, ubriaca d’amore e di vino, dal grezzo e terribile Mapache, un generale che ha raggiunto questo grado tramite l’auto-proclamazione) il regista pone il mondo sulla linea dominati-dominanti e ne sottolinea l’aspetto prettamente sessuale. Il rapporto sessuale che comincia con un atto di passività da un lato e di attività dall’altro. Senza dubbio la Teresa del Mucchio selvaggio o la Amy di Cane di paglia non mostrano particolari doti di fedeltà e neppure di moralità. Quello che spesso la critica si è scordata sono le protagoniste femminili nel suo primo film La morte cavalca a Rio Bravo e nel suo ultimo Osterman Weekend, senza scordare quella via di mezzo rappresentata da Carol in Getaway!. Queste tre (solo in parte Carol) sono donne dal carattere straordinario perché si sa, le donne non sono diverse dagli uomini: alcune sono forti, disciplinate, con un forte carattere, altre invece sono delle poco di buono, delle disoneste, deboli ed infide. E i bambini ? C’è spazio anche per loro e qualora essi fossero inseriti in un ambiente violento, assorbirebbero tutte le caratteristiche di questo. Il fanciullino come spugna. Perché il nostro è un mondo difficile, pieno di violenza e forse è per questo che la sua visione del pacifismo non contemplava la rinuncia alla violenza.

vivere il set come un dojo.. o un saloon.
vivere il set come un dojo.. o un saloon.

Per Peckinpah il vero pacifismo è coraggio. La storiella del “porgi l’altra guancia” non ha mai funzionato, neppure sotto Natale. Se un uomo viene da te e ti taglia una mano, tu non puoi offrirgli l’altra. Non se vuoi continuare a suonare il piano. Non che la violenza sia ciò che fa di te un uomo, ma se la violenza arriva, tu non puoi sfuggire. L’istinto è difendersi, se scappi sei morto o sarebbe stato meglio esserlo.

Eros e Thanatos.

A proposito dell’elemento violenza, elemento presente in buona parte dei suoi film ancora oggi c’è un mucchio di gente che ne parla come se la violenza dei film di Sam Peckinpah contribuisse alla violenza che esiste nella società. A mio avviso la violenza è in noi, in tutti noi, e dovrebbe essere liberata in modo costruttivo altrimenti finirà per ucciderci. Oggi molti di voi guardano uno snuff movie e ne escono soddisfatti. Pensate a quanti americani guardano il Super Bowl e ne escono soddisfatti, pensate a quanti padri di famiglia imprecano durante le partite a calcio dei figli. Sono tutte esperienze di violenza. Un tempo si andava a teatro e si aveva un’esperienza comune dove gli spettatori assistevano alla messa in scena di una tragedia di Shakespeare violenta, come violente sono le favole dei fratelli Grimm. La differenza consiste nel cambiamento dei tempi. I vari telegiornali anestetizzarono già a suo tempo i sentimenti dello spettatore medio: Sam Peckinpah invece sbatteva la telecamera dove l’occhio umano non voleva. Attenzione però, l’effetto finale non è pornografico. Non c’è la pornografia della violenza anzi. La violenza viene esorcizzata attraverso la sua enfatizzazione. Ogni giorno guardiamo la violenza al telegiornale, ogni 3×2 c’è una notizia riguardante l’ultima guerra in Medio Oriente o un conflitto locale in Africa, ma le persone che muoiono non ci sembrano reali. Le percepiamo distanti.  Ultimamente c’è una riscoperta del regista e le accuse sul suo modo di concepire la violenza sono cadute ma solo in parte. Questo perché il Cinema si è evoluto (o involuto, dipende dai punti di vista) e la violenza è divenuta esplicita. Esplicita, presente ed insita in un certo tipo di cinema. Personalmente ritengo che la nostra società abbia rifiutato di riconoscere l’esistenza dell’animalità nell’uomo, suo elemento naturale. Questo dato, l’animalità umana, emerge nei film del regista. In Cane di Paglia è l’animalità, l’istinto animale a condurre il protagonista alla soluzione finale.  Si guarda in profondità, è un intellettuale, un laureato, un dottore, un benpensante ma alla fine è l’istinto primordiale che lo porta alla salvezza.

Sam Peckinpah era così, sopra le righe. Animalesco, terra terra, un libro aperto, un uomo senza peli sulla lingua che confesserà le sue ottime relazioni con alcune prostitute. Le considerava donne oneste, le trattava con umanità e con rispetto, violenza a parte, infatti, la prostituzione è uno dei temi che torna nelle sue opere. In Cable Hogue la donna-angelo Dantesca è una puttana. In The ballad of Cable Hogue viene riproposta la storia d’amore fra una prostituta e il regista, la storia viene trasferita in un’oasi artificiale in mezzo al deserto ed il risultato finale è una delle storie d’amore più tenere che io abbia mai visto. Quella fra Hogue e la sua amata è una storia vera, più onesta di molte relazioni matrimoniali fra due coniugi che si scopano l’un l’altro per i soldi di uno dei due. A casa mia si chiama prostituzione legalizzata. Mi ricordo che dopo la visione di The Ballad of Cable Hogue rimasi stupito, non credevo si potesse discutere in questo modo il tema dell’amore, l’amore fisico per lo meno.

L’amore il vecchio Sam non lo aveva solo per le donne ma anche per il Messico. Questo era un amore viscerale, un rapporto particolare nato subito dopo la guerra di Indocina. Ci rimase tre mesi e ci ritornò più volte, prima con la prima moglie, poi ci si sposò con la seconda (che tra l’altro era Messicana) ed infine durante The Getaway si sposò a Juarez con la sua terza moglie. Sam era fissato con il Messico, fu sempre legato a questa terra. Rappresentava e rappresenta ciò che gli USA non sono più: un paese di rifugio per uomini di tutti i tipi, dai criminali ai rivoluzionari per passare ai soldati o ai cowboys di frontiera. Il Messico come scarto dell’America, come terra da colonizzare. Il Messico come frontiera, terra promessa e nascondiglio. Sam guardava il Messico con un occhio nostalgico, rivedeva la sua gioventù a Fresno, riviveva i momenti a cavallo, la caccia, la vita, il calore. Sam diceva sempre: “Se piaci a un Messicano, quello ti tocca. E’ diretto, è leale. Oggi negli Stati Uniti siamo tutti pronti a firmare petizioni contro lo sfruttamento degli animali, a fermare la deforestazione, a creare movimenti contro la guerra. Tutti questi che si impegnano in queste crociate poi si scordano di baciare le mogli prima di andare a lavoro e di dare l’acqua alle piante prima di uscire di casa.In Messico non si preoccupano troppo di salvare l’umanità ma almeno non si dimenticano di baciare le mogli”.

Sam incarna in un certo qual modo il pensiero dell’uomo che non deve chiedere mai, fra vitalismo e pessimismo egli è sicuramente un “maschio” che non deve dimostrare nulla e che non scende a compromessi con niente e nessuno. Insomma, la classica persona che la mattina si alza e manda tutti a quel paese. Certo il rischio di avere una crisi di nervi è alto, come è alto il rischio di avere una serie di persone contro. Non è un caso se l’ultimo periodo della vita di Sam sia segnato dall’abuso di alcol e droghe tanto che si spense per ictus a 60 anni.

Politica e accuse di fascismo.

Non so se sia giusto etichettare il suo pensiero come controverso, senza dubbio il suo non era il pensiero del minimo comune denominatore e non era un pensiero che la maggior parte delle persone esprime ed esprimeva liberamente.  

Peckinpah non credeva che gli uomini fossero nati uguali, era un fiero sostenitore della diseguaglianza intesa come “guardare le cose con realismo”. Nella nostra società non siamo tutti uguali, abbiamo eguali diritti ma le due cose non sempre combaciano. Il figlio di un senatore ha le stesse opportunità del figlio di un operaio ? Proprio per il suo pensiero, una parte della critica lo etichettò come “filo-fascista”. Badate, Sam Peckinpah non era certo un pacifista o un Democratico inteso come appartenente al partito Democratico degli USA, ma non gli è mai piaciuto il termine fascista e quello che comportava. Lo odiava.  Eppure se gli pseudointellettuali lo definivano fascista per queste ragioni rispondeva suo rammarico di esserlo.

A proposito degli intellettuali, lui non li odiava, odiava quei porci di De Palmiana memoria, quegli Hasa che si ingozzavano più di quanto serviva e poi scoppiavano. Quelli che si rotolavano nella propria diarrea verbale. Prendete il protagonista di Cane di Paglia: è un intellettuale, è intelletto in azione, è umanità ma la sua umanità si perde per strada e lascia spazio all’animalità. Sam era un duro, un outsider, un borderline e i suoi sbandati lo rappresentavano, erano l’emblema della sua politica. Una politica sicuramente non vicina agli ambienti “Democratici” ma neppure “Repubblicani”. Il nichilismo, l’individualismo, sono tratti particolari del suo modo di vivere. I valori come la lealtà, il sentimento forte nei confronti dell’amicizia maschia e cameratesca, la dignità, li troveremo difficilmente in altri registi o in altre persone. Oggi sono diventati dei cliché sia nella vita reale che nel mondo in celluloide. Dei cliché del western, un genere che oggi è morto e che negli anni di lavoro del vecchio Sam rappresentava l’ultima mitologia rimasta. Lui come Omero. Un uomo dell’800 trasportato con forza nel 900. Era un uomo dell’800 a livello storico e politico.

Gli piacevano gli anni ’30 del XX secolo e l’800 Americano in generale, anni in cui l’America era diversa. Anni in cui era ancora alle fondamenta. Il nostro non era molto fiducioso nelle soluzioni politiche sociali dell’America degli anni ‘60/’70 ed identificava uno dei problemi del Paese nella pubblicità. Parlava di quegli anni come l’inizio di un Nuovo Medioevo. Aveva capito che la pubblicità permetteva di vendere uomini ed oggetti, senza fare distinzioni tra le due cose. Un lavaggio del cervello. Era sfiduciato, ideologicamente si era stufato sia dei repubblicani che dei democratici. Vi cito le sue parole: “…Pensa a quelli che stiamo per votare: Nixon e Wallace, due scimmie assassine arrivate dritte dritte dalle caverne, con la morte negli occhi ma vestite con il vestito buono. E in alternativa cosa abbiamo? Humphrey e Muskie, (i democratici contrapposti a Nixon ndr) due senz’anima. Verrà il momento in cui ripenseremo a Truman come il miglior presidente che abbiamo mai avuto. Anche Eisenhower non era male, almeno non era morto. La società non era morta. Oggi gli Americani sono schiavi della televisione, hanno un tasso d’attenzione bassissimo. La maggioranza delle persone torna a casa distrutta la sera, si fa un panino e si mette di fronte ad un televisore. Oggi con la tv via cavo le persone non alzano neppure il culo per andare al Cinema. Andare al cinema è condividere qualcosa, ha una funzione sociale. Quando vedi la tv in sala lo fai al massimo con quattro persone ed una di queste è pure rincoglionita. Sembra che il modo in cui si sta sviluppando la nostra civiltà sia stato programmato e la cosa non mi piace“.

Passioni.

Sam e il Cinema.

Non gli piaceva lavorare sotto nessuno, voleva il controllo su tutto, dalla sceneggiatura al montaggio, in particolare non gli piaceva la figura del produttore. L’opera doveva essere del regista e del regista soltanto, con il carattere che aveva molto spesso si trovò in lite con essi e di conseguenza le pellicole venivano tagliate, stuprate, ridotte (Major Dundee, terza opera sua ne è un esempio). Il “produttore tipo” doveva essere quello che gli lasciava fare il lavoro, quello che lasciava fare il film che volevi fare. A proposito dei film, gli unici film che gli piacevano erano i suoi, non sopportava che altri “figli di buona donna ” gli fregassero il lavoro. Per farvi capire, una volta disse: “Non ho visto il Padrino ma dicono che sia bello, odio Coppola per questo“. Sempre a proposito delle pellicole e il rapporto che aveva con i film, a suo tempo, gli piacque molto Dirty Harry di Don Siegel, suo mentore e collega. Con Don Siegel ci lavorò per anni (ne L’invasione degli ultracorpi oltre a curare la sceneggiatura, fece la comparsa e lo stunt-man) ma con il tempo Siegel divenne geloso del nostro, tanto che una volta gli rinfacciò del suo contributo agli sviluppi della carriera professionale di Peckinpah. Apprezzava Kurosawa e Leone. Gli piaceva Leone anche se nei suoi film non c’era una memoria reale (e americana) del far west. Era convinto poi che Bergman e Leone avessero quella libertà da lui ricercata, la libertà sui produttori e invece criticava Kubrick poiché era convinto di averla. Apprezzava il lavoro dei critici e andava su tutte le furie quando spezzavano le gambe ai film buoni e invece osannavano i film mal riusciti… dove per film buoni si deve leggere i suoi film, ovviamente.

Non si lasciava fregare dalla società consumistica. Ed ecco perché, pur con il successo, è rimasto un tenero campagnolo dedito alla caccia, alla pesca e ultimo ma non ultimo, è rimasto un uomo dedito al galoppo di donne e cavalle. Bere mangiare, i vestiti comodi e le belle donne erano le poche cose su cui investiva il suo danaro. Oltre a questi, investiva soldi in viaggi (Messico fra tutti). Era un nomade, uno con la valigia in mano. Pur cambiando rimase sempre lo stesso. Da piccolo andava a caccia e anche dopo esser diventato un regista di successo, continuò a dedicarsi alla sua passione sempre nel massimo del rispetto dell’animale. Come diceva sempre: “Un cervo è un’ottima preda da uccidere, quando hai fame, ma è un bellissimo animale, uno splendido essere“. La sua filosofia di vita era legata molto a come ci debba essere un principio per uccidere, spesso molti uomini uccidono senza principio e normalmente uccidono altri uomini.

Conclusioni de “Sam Peckinpah-l’uomo”

Post Peckinpah.

Il Don non si prende la responsabilità dei sentimenti feriti ai cinefili o presunti tali.

Quindi altra domanda: cosa rimane del Cinema made by Peckinpah ? Cosa rimane di quel mondo fatto di pochi sentimenti, l’amicizia e l’amore in testa, appannaggio di individui dubbi e complessi? Personaggi in procinto di terminare la loro esperienza terrena, al crepuscolo della loro vita, racchiusi in un gruppo, un branco. Il gruppo, il vivere ed agire assieme, un branco di amici legati da un amicizia aspra e profonda.  Cosa rimane degli ideali del gruppo ? Quello schierarsi con il giusto ma per le ragioni sbagliate ? Che finalità può avere il ralenti estrapolato dai contesti del nostro ? E quali degenerazioni apporta l’abuso dello stesso ? Il Ralenti è una tecnica usata non solo durante sparatorie fantastiche le quali ci lasciano a bocca aperta, viene usato addirittura nei momenti d’amore e tenerezza. In The Getaway, dove moglie e marito si tuffano nel laghetto come per purificarsi, trovare pace interiore.

Se per la violenza venne blastato dalla critica, moltissimi cineasti seguirono il suo modo di fare cinema. Walter Hill, Martin Scorsese, John Woo, Quentin Tarantino. Ma a volte succede che il ralenti, il montaggio rapido e la simulazione della dilatazione del rumore dovuto all’esplosione dei proiettili, tolti dai contesti originari, perdono il loro significato reale. Non tutti sanno che in Cane di Paglia molte scene vengono limate, quelle eccessivamente aggressive venivano eliminate oppure con un’inquadratura più distanziata, più breve, venne “addolcito” il tutto. Ancora, la scelta di non assecondare la morbosità dello spettatore in Voglio la testa di Garcia, la decapitazione avviene fuori campo e la testa mozzata quando viene mostrata è solo avvolta in un sacco. Scorsese contrapposto a Peckinpah è più incline alla visualizzazione della violenza (Taxi Driver segue di soli due anni Voglio la testa di Garcia eppure è molto più incline alla violenza e alla brutalità). Martin Scorsese riconobbe l’importanza dei film di Peckinpah per il proprio lavoro attribuendogli il merito di aver saputo mettere in scena situazioni sgradevoli. Scorsese è stato in grado di trarre con sensibilità le vicende di Jake La Motta, la sua angoscia nel prendere coscienza del fatto che la rabbia sul ring portata a casa è la causa del fallimento della propria vita. Ma in Taxi Driver l’elemento brutale è più intenso, basti pensare alla carneficina finale al sangue, al dettaglio, alle inquadrature d’effetto che si soffermano su un uomo a cui vengono amputate le dita. Torna il barocchismo.

Badate, non è una critica a Scorsese, è una semplice distinzione fra i due. Peckinpah nella sua violenza, nei suoi film duri ed amari, sorvolava nella manifestazione fisica. Non è gore, non vi sono torture, Sam è attento a mostrare gli effetti devastanti della violenza (fisica e psicologica) sulla vita dei personaggi coinvolti in essa e sui loro sentimenti. Nel post-Peckinpah si è più attenti al lato truce, è assente il percorso compiuto dai vari personaggi e le sofferenze/mortificazioni subite per la via della redenzione.

In Pulp Fiction di Tarantino c’è una scena dove a John Travolta parte un colpo che uccide il passeggero seduto sul sedile posteriore. Quentin colloca la cinepresa dietro la testa della vittima, lungo la linea di fuoco, dando l’impressione che l’esplosione investa il pubblico. Tecnicamente il risultato è sublime, si potenzia al massimo il risultato della sequenza. Tarantino è interessato allo shock: invece Sam voleva instaurare un dialogo morale con il pubblico. Per Peckinpah la violenza rappresentava una drammatica realtà che negli anni ’70 infestava gli U.S.A. Tarantino ci ride su, ci mette dell’umorismo e del Gore, per Peckinpah era una faccenda vissuta e troppo seria per riderci sopra. Ci sarebbe da accennare la scena di Mr. Blonde con un rasoio sulle note de “Stuck in the middle with you” ne le Iene che, per quanto mi faccia impazzire, a livello narrativo risulta gratuita, esibizionista, e fine a sé stessa. Roba che Peckinpah due bei ceffoni a Tarantino glieli avrebbe dati.

  • CAPITOLO 2: IL MITO, I SUOI FILM
    The Deadly Companions
    Primo film del nostro, e paradossalmente l’ultimo visto dal sottoscritto, “La morte cavalca a Rio Bravo” è un film riuscito male. Per carità c’è di peggio ma per quanto io ami il regista ed i suoi film, la pellicola in questione è distante anni luce dal Peckinpah classico. L’opera è semplicemente un western che intrattiene per metà, hai voglia Rotten Tomatoes a dargli 80% come metro di giudizio. La trama del film è piuttosto lineare e ruota attorno il viaggio di tre cowboys ed una donna (Maureen O’Hara). Il personaggio femminile, una donnaccia di paese, assiste all’uccisione durante una sparatoria di suo figlio, avvenuta per sbaglio per mano dell”ex sergente Yellowleg (Brian Keith). Questi decide di accompagnarla in una piccola città fantasma; l’obiettivo della madre è seppellire il suo piccolo accanto al padre. La vicenda si svolge fra assalti degli indiani, un susseguirsi di inseguimenti e via dicendo ma il film rimane distante anni luce dal Peckinpah classico, quello del ralenti, quello mascolino, dell’amicizia cameratesca e virile. La violenza, quella spettacolare, quella con la V maiuscola, è praticamente assente. Anche le scene d’azione sono calibrate a tal punto che l’unica cosa davvero sovversiva, e quindi collegabile allo stile del nostro, è una pallottola vagante che colpisce casualmente un bambino, uccidendolo. Il film non fornisce neppure il classico spaccato della quotidianità del lontano west. Il motivo è fin troppo semplice: il produttore, Charles B. Fitzsimons, fratello dell’attrice Maureen O’Hara, impedì al regista qualsiasi intervento personale. Fu una specie di vampiro che succhiò il sangue al nostro e lo controllò in ogni occasione. Sam Peckinpah decise di non collaborare più con il produttore e con la stessa casa, la Carousel Production, arrivando a rinnegare il film.
    Il film scorre ma non è nulla di che.
    Ride the high country.I primi film che Sam Peckinpah dirige sono dei western e questo è il secondo. La trama del film è piuttosto lineare e ruota attorno al viaggio di tre cowboys, con l’obiettivo di recarsi in un villaggio di minatori e portare l’oro dei cercatori alla banca che li ha incaricati del lavoro. Trama a parte, il film è impregnato di mascolinità ed è caratterizzato dall’onnipresente tema dell’amicizia. Va visto poiché fornisce un bellissimo spaccato della quotidianità dei tempi passati. Un affresco sugli usi e costumi del far west. Emerge così la figura di un padre-pastore, un uomo di Chiesa che vuole salvare ad ogni costo la figlia, preservare la sua purezza (anima e corpo) da un giovinastro in particolare e dall’uomo in generale. Una donna-angelo che, pur di scappare dal padre-pastore, sposa un troglodita con una strana concezione del matrimonio… e naturalmente i tre eroi, due dei quali alquanto crepuscolari, pronti ad intervenire.Major Dundee

    È il terzo film diretto da Sam Peckinpah. Praticamente ogni cazzo di versione che troverete non combacerà mai con l’originale. Sam Peckinpah aveva diretto un film completamente diverso ma non aveva previsto l’imprevisto: i produttori. Sierra Charriba (titolo italiano) venne stuprato. Tagliato in più pezzi sorprendentemente il risultato finale resta passabile. Sufficiente, nulla più, ma tenendo presente la vicenda dei ripetuti abusi possiamo ritenerci più che soddisfatti. La cosa più sorprendente è l’atmosfera di perenne lite, tensione, che si respira all’interno della pellicola. Chi sono i protagonisti della vicenda ? Yankee Nordisti e Sudisti. I tipi si vogliono bene come Leghisti ed immigrati clandestini ma collaborano per un obiettivo più grande del loro odio: un gruppo di bambini viene rapito da Charriba, capo tribù indiano ed i suoi sgherri. Il nemico comune, un Nativo Americano, viene usato per abbandonare le rivalità e gli attriti che scorrono fra le due fazioni. Il tutto durante la Guerra Civile Americana. Senza parlare poi dello scontro, un incredibile scontro, una guerra fra vecchio e nuovo mondo verso la fine..

    Un capolavoro mancato.

    Il mucchio selvaggio.

    In una parola: immenso. Tornano i temi cari al vecchio Sam: il Messico, la violenza, il ralenti formidabile, il ruolo della donna (quello dei bambini) e l’”amore”. La pellicola si apre con un gruppo di soldati che si reca in una piccola cittadina. Nei primi minuti del film vediamo una serie di bambini intenti a “giocare” a quello che sembra una lotta fra scorpioni e formiche. Stuzzicano entrambi gli animali e ridono, poi danno fuoco al tutto. Sono cresciuti in un ambiente violento e di conseguenza prendono tutti i difetti e i vizi di questo. Cambia inquadratura e compaiono i nostri protagonisti. Quelli che sembrano uomini in divisa in realtà sono i componenti di una banda di criminali in uniforme. Essi rapinano così la banca locale. Sono mesi ormai che gira la voce di come un carico d’argento stia per arrivare alla banca della ferrovia. Perché non approfittarne ? Tutto ciò è un tranello e nessuno nel gruppo ne è a conoscenza. Sin dai primi minuti compare in modo prepotente il “ralenti”, infatti nella sparatoria, la lunghissima e strabiliante sparatoria, fra la banda capeggiata da Pike Bishop (William Holden) e un gruppo di mercenari, esso fa il suo ingresso in pompa magna. Cosa sappiamo ? Sappiamo che il capo dei mercenari a suo tempo faceva parte del mucchio; sappiamo che il tale è stato tradito dal modus operandi di Pike. In ogni caso il Mucchio si salva e raggiunge il Messico. Il Messico come scarto dell’America, il Messico come terra da colonizzare. Il Messico come frontiera, come terra promessa, come nascondiglio. (Sam, la tua fissa per il Messico è un invito a visitarlo ?) Credono di arrivarci ricchi sfondati ma quello che sembrava argento si scopre volgare acciaio. Proprio qui, Angelo, uno dei membri del gruppo criminale, scopre come sua moglie, la dolce e casta (?) Teresa se ne sia andata, ubriaca d’amore e di vino, fra le mani del grezzo e terribile Mapache un generale che ha raggiunto questo grado tramite l’auto-proclamazione..

    E così, mentre i nostri vengono inseguiti dai mercenari, si trovano in una Nazione in Rivoluzione, il Messico agitato in cerca armi. Armi moderne, armi che i “bifolchi” non avevano mai visto (emblematica la scena della gatling). Ve lo consiglio vivamente, capolavoro vero.

    The Ballad of Cable Hogue.

    Quinto film diretto dal magico Sam Peckinpah, quello a cui il regista sarà sempre legato per via della poetica e la dolcezza intrinseca. La Ballata di Cable Hogue è uno dei pochi film per cui Peckinpah si dirà soddisfatto, il risultato finale è unico: siamo di fronte ad un western agrodolce e romantico allo stesso tempo nel quale sparatorie e sangue sono quasi assenti. La concentrazione è spostata su due figure, Hildy e Hogue. Hogue è un rozzo individuo dal cuore grande come una casa, un cercatore d’oro che viene abbandonato nel deserto dai suoi compagni. Si salverà grazie al ritrovamento di una sorgente d’acqua e decide di creare un’oasi felice. L’attività prospera nel deserto, iniziano così i primi guadagni. Hildy invece è l’amore della sua vita, una prostituta affettuosa, una bionda tutto pepe che ammalierà il nostro. La critica distrusse il film, lo distrusse (non ci sono mezzi termini): ma a mio avviso, con gran maestria, il regista ci mostra una fase storica precisa.

    Un momento di transizione degli States, una fase di cambiamenti.. e il tutto con gli occhi dei bifolchi dell’epoca. Sublime l’entrata in scena di una macchina, scena ricca di emozioni fra stupore e paura verso il “demone meccanico”.

    Note.

    Il fatto che Peckinpah frequentasse delle prostitute e che Hildy appartenesse alla categoria, come dicevo sopra non è un caso.

    Straw Dog

    SVOLTE.

    Qui cambia tutto.

    Cane di paglia è un film semplicemente tremendo. Il western che si sposta nella quotidianità, sintetizzata al massimo la trama è così descrivibile: Dustin Hoffman interpreta un matematico pacifista, deboluccio, umile, che non cerca né crea problemi. Un buon lavoratore con una bella ma provocantissima moglie. Egli subisce le peggiori umiliazioni, compreso la “violenza sessuale” sulla moglie mentre è ad una battuta di caccia (da notare come la stessa non sia troppo traumatizzata dall’evento poiché infastidita dall’accondiscendenza del marito nonché delusa dalla mancanza di mascolinità nello stesso). Il film è un doloroso tira e molla. Nessuno è disposto a subire perennemente piccoli o grandi soprusi: infatti una sera non troppo lontana dall’evento il nostro matematico diventerà un essere brutale che difenderà ad ogni costo il suo domicilio.

    Nel dettaglio emergono molti particolari. Il protagonista di Cane di Paglia è un intellettuale, è intelletto in azione ed umanità ma la sua umanità si perde per strada e lascia spazio all’animalità. L’animalità umana emerge nei film del regista ed è onnipresente in questo, fra tutti. In Cane di Paglia infatti è l’animalità, l’istinto animale, a condurre il protagonista alla soluzione finale. Si guarda in profondità e capisce che l’unico modo per resistere all’assedio della sua abitazione (emerge quindi il tema della sacralità della proprietà privata ) è rispondere con violenza alla violenza dei bifolchi. Il protagonista è un intellettuale, un laureato, un dottore, un benpensante ma alla fine è l’istinto primordiale che lo porta alla salvezza. Dopo Cane di Paglia venne accusato di misoginia. Il punto è questo, Amy è una ragazza ignorante, arrapata, arrapante e stronza. Questo è il personaggio presente in Cane di Paglia, non la descrizione della donna in generale.

    Parliamo della scena a proposito di Amy (la moglie) e il suo stupro. Riguardatevi la scena, all’inizio l’esperienza non le dispiace. E’ solo quando se la sta godendo e arriva il secondo bestione, è solo qui che capisce di essersi messa in un guaio. Questo è il prezzo per essersi messa a giocare un gioco più grosso di lei e non contenta dell’esperienza, inizierà anche lei a deridere il marito.

    Uno Steve McQueen a dir poco incredibile ed un interessantissimo spaccato della quotidianità provinciale degli U.S.A

    JuniorBonner -L’ultimo Buscadero

    L’ultimo Buscadero è il settimo film diretto da Sam Peckinpah, un “western camuffato”. Il protagonista è Jr.Bonner (Steve McQueen), un cowboy da Rodeo che cavalca senza sella. Quello che compare nella pellicola è il Rodeo come elemento ultimo dell’identità del far west, il Rodeo come ultima speranza del lontano West. E’ rimasto solo questo, una semplice gara. La spettacolarizzazione di un mondo defunto e/o della virilità a cavallo. Il film non è assolutamente il migliore di Sam anzi, non mi sento però di demonizzarlo perché nel suo piccolo funziona, svolge un lavoro onesto, intrattiene con le gare nel rodeo. E’ delicato, la violenza è completamente assente e ci fa fare delle domande sul passato/presente/futuro dei vari personaggi vista la forte caratterizzazione degli stessi. La trama è molto semplice, Junior Bonner è ormai finito, la sua carriera è in discesa, il padre nullafacente è in ospedale, la madre sta per trasferirsi in una specie di container-roulotte, quella che a suo avviso rappresenta il futuro delle case. Il fratello opportunista per propri interessi ha convinto la madre, l’ha spinta verso questa direzione. Il motivo è semplice, egli è un costruttore da strapazzo, uno squalo, il volto amaro dell’America, lo sfruttatore. Tra l’altro il padre ha un sogno, emigrare in Australia. Quello che un tempo veniva rappresentato dal Messico, terra di frontiera, terra per la fuga, terra lontana, alter-ego degli Usa, viene rimpiazzato dall’Australia, la “new” land of opportunities. Sono presenti più o meno tutti gli elementi principali dei film fatti da Peckinpah.

    Jr. Bonner non solo cerca i soldi per permettere al padre di realizzare il suo sogno ma cerca una rivincita del tutto personale, vuol dimostrare che è ancora un degno cowboy da rodeo. Riuscirà il nostro eroe al crepuscolo della carriera a ritrovare la gloria, la fama e la sua autostima ?

    THE GETAWAY

    Era il 1972. Sam Peckinpah si reca a El Paso, Texas.

     In questo periodo, oltre il confine Messicano, il regista si sposa con la sua III moglie. Sua la regia e la sceneggiatura invece ? E’ di un certo Walter Hill, altro fabbro del Cinema.. chissà, che il Don stia programmando di farvi uno speciale anche su lui ?

    Il film si apre con l’inquadratura di alcuni cerbiatti accanto al penitenziario dove è rinchiuso il nostro protagonista. Doc è un rapinatore imprigionato, ha lasciato tutto ed ha lasciato sola soprattutto la sua bella moglie. Non è cattivo, sappiamo che ha, in prigione, una condotta esemplare ma gli viene privata la libertà per gli errori commessi in passato. Alla moglie chiede di andare da Beynon, un Texano che incarna il “male” dell’America (è ricco, corrotto, disonesto..) per mettersi d’accordo a proposito dell’eventuale scarcerazione, essendo egli il presidente della commissione della stessa. Incipit veloce, battute secche. La scarcerazione avviene ma a caro prezzo. Due sono le penitenze pagate, in primo luogo infatti sarà coinvolto in una rapina organizzata e ,cosa più grave, la moglie per amore del marito si concede sessualmente al panciuto Beynon. Per scarcerarlo si sarebbe data a tutte le prigioni del Texas, queste sono le sue parole e personalmente mi hanno fatto riflettere.

    Carol è bellissima, non troppo sveglia (poi spiego il motivo) ma di una dolcezza unica. Solo dopo la libertà Doc (Steve McQueen) ha il coraggio di chiederle se avesse avuto altri uomini poiché è consapevole di come è avvenuta la sua liberazione, è lei l’artefice di tutto. Da questo momento comincia la II parte della pellicola.

    LA RAPINA.

    Doc è preciso, scientifico, pignolo.

    Progetta la rapina nei minimi dettagli ma gli vengono affidati come colleghi di lavoro due loschi individui, Rudy e Frank. Uno di questi uccide una guardia all’interno della banca. Pur non essendo previsto nei piani, il fatto non porta al fallimento degli obiettivi. Il colpo va a buon fine e 500 000 dollari finiscono dritti dritti nelle tasche del trio. Trio che diventa un duo siccome Frank elimina Rudy (che a sua volta uccise la guardia della banca che al mercato mio padre comprò). Vorrebbe accoppare anche Doc ma egli è più sveglio e lo ferisce. Focalizziamoci sull’uso del ralenti, piccola caratteristica del film: “Il ralenti non viene usato solo nei momenti di violenza, durante delle sparatorie che ci lasciano a bocca aperta (molto spesso sento parlare delle sparatorie cazzute anni ’80, signori miei quelle sono figlie del vecchio Sam) ma anche nei momenti di passione ritrovata“. Basti pensare al post-scarcerazione, al laghetto marito e moglie si tuffano, si immergono nell’acqua paciosi e soddisfatti per la pace riottenuta (a caro prezzo).

    Intanto moglie e marito vanno da Beynon e finalmente tutte le paure vengono a galla. E’ qui che il nostro scopre come la rapina sia frutto di un marchingegno, una truffa. Vengono dichiarati duecento mila dollari in più che spariscono. Questo perché il fratello di Beynon se li è intascati attraverso un furto “legale”, senza pistole o passamontagna.  Oltretutto è in questa occasione che Doc scopre come la sua donna si sia data fisicamente al corrotto Texano.

    BABOOM colpo di scena e BABOOM colpo sparato da Carol all’opulento americano.

    Non sapremo mai se stava sparando al marito e poi ci ripensa o se effettivamente voleva farla finita con Beynon. Ripensamenti a parte o presunti tali, la pellicola ci mostra come Carol sia una donna forte che farebbe di tutto per il marito. Da questo momento si apre la III parte.

    FUGA VERSO LA LIBERTA’.. MEXICO.

    I nostri protagonisti prima di arrivare in Messico ne dovranno passare di cotte e di crude, tanto che Carol si farà fregare pure il malloppo con 500 000 dollari dentro (l’ho detto che non è sveglia). Non vi dico altro, sappiate solo che Frank non è morto, è ferito e tornerà… prima però fotterà, in tutti i sensi, la moglie di un dottore che lo medica. Cliché sulla donna a parte, il film è un Signor film.

    Cinema con la C maiuscola.

    Pat, Billy e Bob.

    Con Pat Garrett & Billy the kid si vola (nuovamente) verso il genere western ed oltre. Il film ha una colonna sonora firmata Bob Dylan, il tipo oltre a curare la soundtrack fa parte del cast prepotentemente invaso dall’attore feticcio del regista Kris Kristofferson (Billy the Kid) e soprattutto da James Coburn (Pat). Quella che abbiamo di fronte ai nostri occhi è una triste storia di amicizia fra due dinosauri appartenenti ad un’era che sta scomparendo: il far west. Il film è ambientato in Nuovo Messico, il far west è in procinto di diventare un mero ricordo, un racconto da serata vicino al camino oppure al falò nel deserto. Tempi che cambiano, tempi che rimangono uguali.

    Pat e Billy sono amici, compagni di bevute, di chiavate, dei fratelli che in passato hanno condiviso tutto persino le pistole. Con gli anni ed il sopraggiungere della vecchiaia Pat cambia la sua posizione, gli viene proposto il ruolo di sceriffo della contea di Lincoln. Egli matura, non è più una testa calda dal grilletto facile e lo spettatore lo percepisce dopo poche battute… a Billy invece occorre metà film. Dopo pochi giorni Patt provò al suo amico come egli non scherzasse, lo cattura in seguito all’accerchiamento del suo rifugio: ma la prigionia dura poco.  Non si riesce a prendere una posizione a favore dell’uno o dell’altro. Patt esegue degli ordini, è uno sceriffo, fa il suo lavoro. Aggiungo che in più occasioni ha dimostrato l’attaccamento a Billy oltre ad un senso forte di amicizia. Billy invece è un criminale dai modi simpatici, è il bandito che esce vittorioso dalla città, acclamato, rispettato e temuto. Un uomo che vale come un esercito. Dalla fuga in poi sarà una caccia aperta, una sfida fra gatto e topo, un susseguirsi di sfide colte da entrambi. Trama a parte, tornano, come in ogni film firmato Sam, i temi che oramai conosciamo bene (il ruolo emblematico della donna; i bambini non angeli scesi in terra bensì spugne che assorbono la violenza dell’ambiente in cui vivono; il Mexico luogo di frontiera, rifugio, alter-ego dell’America; eccetera). Tornano dei personaggi accuratamente personalizzati con una morale elevata perché, diciamocelo, da un lato Pat si ricorda benissimo quando lui e Billy erano amici ed ora che è la legge non abuserà del suo ruolo, della sua posizione; dall’altro invece sa bene dove finisca l’amicizia e cominci il suo compito: quello dell’essere il nuovo sceriffo della città, mentre Billy è rimasto un criminale da strapazzo dai modi tanto simpatici quanto risoluti.

    Un film magnifico che consiglio a tutti voi, uno dei migliori se non il migliore Sam Peckinpah.

    Note.

    Il 31 dicembre 2010 il governatore del Nuovo Messico Bill Richardson, dopo aver esaminato il caso, ha negato la concessione di una grazia postuma a Billy the Kid, 129 anni dopo la sua morte, confermando la decisione del governatore di allora, Lewis Wallace.

    Voglio la testa di Garcia.

    Cosa si è disposti a fare per amore e per una vita migliore, più felice ? E se al romantico aggiungessimo l’estremo ? La strada per raggiungere questo fine sarà durissima.

    Il film si apre con una giovane, figlia di un ricco Messicano, che viene messa incinta. Il tipo non reagisce troppo bene al fatto e chiede la testa dell’amante. Alfredo Garcia ha le ore contate. Per capirci, il ricco Messicano ha messo una bella taglia sulla sua testa, una cifra da capogiro. La ricerca di Garcia avviene in lungo e in largo, niente viene lasciato al caso, tutto viene setacciato, persino le bettole ed è proprio qui che veniamo in contatto con il nostro (anti)eroe. Bennie (Warren Oates, altro attore feticcio del nostro assieme al caro Kris Kristofferson), un signor nessuno, un miserabile che dalla vita ha preso solo grossi calci nelle chiappe, un pianista che vive i suoi giorni in modo tranquillo ma che sogna di cambiare il proprio destino. Coglie al volo l’occasione quando due killer omosessuali interpretati da Gig Young e Robert Webber (siamo negli anni ’70, badate) arrivano nel bar dove suonava per offrirgli un migliaio di dollari, che diventano 10.000, per procurare loro notizie su Alfredo. Lo cercano, vivo o morto non importa, anzi lo preferiscono morto in modo da non sporcarsi neppure le mani. Bennie ha una Musa, la prostituta Elita (Isela Vega). I due sono una coppia a dir poco struggente, cercano il loro paradiso in terra, la serenità, la salvezza ma nulla è come sembra.

    Elita è una donna-madre, una prostituta dolce, con dei sogni, desideri, passioni. Purtroppo però sono entrati in un gioco più grande di loro ed Elita, che a suo tempo era stata con Garcia, ha ancora un ricordo fresco di lui. Ella è ancora legata al latin lover e rivela che Alfredo è morto e sepolto. Da questo momento inizia la parte on the road, per arrivare al luogo della tomba. I problemi non finiranno qui: anzi, da questo punto si moltiplicheranno fino ad un finale col botto, con un Bennie (si rivela essere un ex soldato) pretendente vendetta per tutto quello che ha perso, per la pace mancata e non solo. Una strage di 104 minuti con una richiesta particolare verso la fine.

    Il film si chiude con un fermo immagine, la bocca di un mitra e la scritta:

    “Directed by Sam Peckinpah”.

    Un tacito e violento grido di rabbia.

    Sam ti amo.

    Sam altro che Quentin.

    THE KILLER ELITE.

    Quando Tom Hagen e Sonny Corleone si incontrano in un film di Peckinpah. C’è una battuta bellissima fra Caan e Young, questa battuta viene detta durante la resa dei conti fra due antagonisti Cinesi (dopo che lo spettatore ha assistito a dei duelli e lunghi combattimenti fra Ninja e i nostri, in una San Francisco in pieno clima anni 70) :

    “Non ho mai capito la questione dell’onore… e poi perché le spadone ?”

    “Forse affettano meglio il loro onore”.

    Due minuti di applausi.

    The Killer Elite è quello che, a mio avviso, possiamo definire un film frutto del melting pot tipico degli U.S.A.. Il ritmo del film è irregolare, l’atmosfera è cupa, ed ha un bellissimo finale in un porto abbandonato, in mezzo a navi da guerra. E’ frutto dei film spionistici, strizza l’occhio a 007, e delle oscure manovre della CIA. The Killer Elite è un universo aggressivo e regressivo nel quale bene e male si fondono, tutti tradiscono tutti, è distruttivo. Niente di elaborato o epifanico ma comunque piacevolissimo con momenti d’azione incredibili e, di tanto in tanto, delle scene divertenti memorabili.

    La trama è lineare: la società Comteg si occupa della protezione di enti e persone su commissione (spesso dalla CIA). Mike e George fanno parte di questa società e sono ottimi amici ma George (Robert Duvall) tradisce Mike (James Caan), ferendolo gravemente ma non uccidendolo (vista la lunga amicizia) e facendo secco l’obiettivo da proteggere. Mike trascorre un lungo periodo di convalescenza (una bella fetta del film è dedicata ala sua riabilitazione), dopodiché viene recuperato per proteggere un politico di Taiwan da George stesso. Chi non muore si rivede. Una poderosa pellicola nella quale potrete trovare ninja, acrobazie folli, esplosioni, sparatorie, organizzazioni segrete, omicidi politici, ralenti, James Caan e Robert Duvall assieme a quel caratterista di Burt Young.

    La croce di ferro.

    Questo è quello che succede quando un regista come Sam Peckinpah si interessa del cinema di genere bellico: Cross of Iron.

    All’epoca Sam e la sua troupe si spostarono da San Francisco a Zagabria, Monaco e Porto Rose. Diciamo che si iniziò subito con il piede sbagliato. Promisero a Sam 20 fottuti carri armati, ne arrivarono 2, il cast poi… Ad eccezione dei protagonisti la stragrande maggioranza era tedesca. Ma il film iniziò con il piede sbagliato per due ragioni su tutte: la prima era il produttore, la seconda era tedesca e Sam aveva ancora dei risentimenti contro i tedeschi (la II guerra mondiale era finita da un pezzo ormai ma Sam aveva la memoria lunga e oltretutto era un marine). Nonostante le attrezzature limitate, i due carri armati vennero fatti girare sul set tipo girotondo affinché sembrassero uno squadrone. Nonostante le comparse jugoslave sorridessero alla telecamera, Sam diresse un grande film.

    La Croce di ferro, un film sul fronte Russo, una pellicola con dei personaggi disillusi. Non sono buoni e neppure cattivi. I protagonisti della vicenda sono i membri di un reparto dell’Esercito Nazista. Il conflitto li ha logorati, gli eventi portano quelli che potrebbero essere etichettati come “cattivi” (poiché nazisti) a rivalutare le proprie posizioni. Non vogliono vincere, vogliono solo che la guerra finisca. La Croce di ferro è un film profondo con personaggi altrettanto profondi e finemente caratterizzati. Prendete il protagonista, Rolf Steiner interpretato da James Coburn. Egli è un valoroso, un coraggioso, un soldato con le migliori qualità. La divisa è quella del III Reich ma fondamentalmente, prima di essere un nazista, è un uomo con tutte le virtù e le debolezze ad esso collegate. Da notare come di nazista gli sia rimasta solo la divisa che indossa, infatti la guerra che combatte non è collegabile all’ultima fase della ricerca dello spazio vitale Hitleriano: il suo è anzi un combattimento personale quasi cavalleresco. In un assalto, dopo un’operazione, uccide dei Russi trincerati in Crimea e salva un bambino Sovietico. Il cavalleresco e nobile Steiner ha un alter-ego, un nobile (in questo caso non d’animo ma di famiglia) Prussiano . Questi è il capitano StranskyI, ed è un vero e proprio arrivista. il suo obiettivo primo è la croce di ferro, un riconoscimento, un premio da aggiungere a quelli ereditati, un premio che non merita essendo egli un vile. Oltretutto manca di qualsiasi umanità o di valore militare.

    La croce di ferro non è solo un film di guerra, c’è spazio per i sogni dei nostri e non parlo della fine della guerra ma della creazione di una Germania migliore. Vi è spazio per lo shock da bomba, uno dei motivi per cui non tanto nella seconda quanto nella prima guerra mondiale i soldati non combattevano più; all’omosessualità di alcuni soldati; la denuncia sia a un regime dittatoriale, che agli eventi in corso e ai principi non più condivisi da una parte del mondo militare. Una bellissima parte è poi dedicata alle vicende che prendono piede in un ospedale militare: qui fra persone paralizzate, mutilate, pazze, si decide di riabilitare i soggiornanti pur non essendo riutilizzabili per la guerra. Il tutto condito dal ralenti.

    La croce di ferro ha un messaggio sensazionale: è la guerra vista dagli occhi di un soldato tedesco, c’è tutto: dalla comprensione per il nemico alla universalità dell’uomo. E quando il film finì, Sam fece finta di preparare l’occorrente per le scene successive. Non voleva finisse, la sua era un’opera d’amore e Sam pianse.

    CONVOY

    Tutto nasce da una canzone country di C. W. McCall: la canzone si chiama “Convoy” ed è parte della colonna sonora dell’omonimo film (nonché presente nel gioco Grand Theft Auto V: ma andiamo avanti).

    Il Camion come surrogato dei cavalli, un western moderno dove gli anti-eroi non sono dei cowboy di Frontiera bensì dei camionisti dai modi rudi. In una parola anzi in un titolo: “CONVOY“, regista Sam Peckinpah. Quella di fronte ai nostri occhi è una pellicola con i temi propri del regista: la fuga verso il Messico; la donna; la violenza e dei personaggi non rintracciabili sull’asse “buono-cattivo, alcuni, poi, vittime degli eventi.

    Tutto si apre con una bella donna alla guida di una veloce decappottabile mentre flirta con Martin. Martin, detto Anatra di gomma, è la figura principale de gruppo di rozzi bifolchi composto inoltre da ” Maialotto” (un poco credibile Burt Young con un ridicolissimo cappello da vaccaro Texano ) e Spider Mike. I tre vivono le loro vite fra una sveltina con la cameriera nel giorno del proprio compleanno, passando per la degustazione di pasti così calorici che Chef Rubio se li sogna. Insomma vivono una vita senza troppe preoccupazioni, lavorano duramente a bordo dei loro camion ma sommariamente trascorrono delle vite tranquille. Tutto si interrompe quando Papà Orso irrompe nella loro routine. Il tipo è un vero osso duro, non svolge con onore la sua professione, è uno sceriffo ed abusa del suo potere. Se dovessimo definire con una parola il Signor Wallace: “carogna” sarebbe quella più adeguata. Con un trucchetto, dopo un’attenta imboscata, egli multa i tre. Non contento del risultato raggiunto, li perseguiterà in più occasioni: basti pensare che Papà Orso irrompe in un bar mentre Anatra di gomma è con la sua cameriera preferita (e in quei momenti magici di certo non stavano discutendo della Crisi Petrolifera del ’74). Così un po’ per goliardia, un po’ per vendetta il gruppo fa scoppiare una rissa distruggendo completamente il bar. Sam deve aver visto qualche film con Bud Spencer e Terence Hill. Alle scazzottate si unisce il ralenti. La pellicola risulta piacevole, non il miglior Peckinpah ma sempre valente. Da questo momento in poi all’azione si aggiunge altra azione, il gruppo verrà ricercato da tutta la polizia dello Stato, nella fuga si uniscono molti altri camionisti, creando un intero convoglio (Ecclesiastici delle Chiese locali inclusi) diretto in Messico.

    L’ultimo film del regista è The Osterman Weekend che non brilla in qualità, anche qui sufficienza piena ma nulla di elaborato. Non mi sento di demonizzarlo poiché prima dell’uscita venne tagliato di oltre venti minuti e i produttori furono sempre con il fiato sul collo del nostro.

    La particolarità del film è che, e non viene mai detta abbastanza la cosa, anticipa le atmosfere e le convulsioni horror televisive de Videodrome. Come in Videodrome la realtà virtuale è un demonio che si insinua nella mente dell’individuo come un virus. Lo schermo televisivo è diventato il vero occhio dell’uomo, lo schermo diventa l’unica cosa su cui l’uomo si fida. Lo schermo è l’anima. Il film, mostra attraverso le vicende del protagonista, uno dei più straordinari e inquietanti congegni di controllo visivo: la tv.

    Un agente della CIA trova la moglie uccisa dal KGB e riesce ad ottenere la registrazione del delitto. Dietro al fatto sta il suo capo, l’agente a cui muore la moglie falsifica un dossier su un contatto sovietico che avrebbe alcuni stretti amici di un giornalista. Il giornalista è Tanner (Rutger Hauer). Tanner e i suoi amici, una volta l’anno, si riuniscono per il fine settimana a casa sua. Tanner è inserito nell’affare con la promessa che il capo della CIA comparirà nel suo programma se lui aiuterò la CIA a smascherare i filo-sovietici amici suoi. L’unica cosa che gli amici hanno da nascondere non è quello di essere filo-sovietici bensì un deposito di danaro in Svizzera: sono degli evasori insomma, cosa che Tanner. Ben presto si insinuerà in lui il sospetto però. L’agente della CIA vuole far venire allo scoperto il suo capo ma…

    Non si capisce chi viene controllato e da chi, la preda diventa predatore, le amicizie virili sono distrutte, gli eroi sono spaesati. Gli spiati diventano spie.

    Quello che emerge è l’odio verso il potere, la bestialità, i contrasti fra individuo e collettività e sommariamente è guardabile. Non un finale con il botto ma godibile.

    Massimiliano “DonMax” Romualdi


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